COME UN FOGLIO DI CARTA
STROPICCIATO
dott.ssa Elisa Lupano - Pedagogista, Counsellor, già giudice onorario Tribunale dei Minori di Torino
Storia di un laboratorio sul bullismo e il cyberbullismo
in
condizioni “straordinarie”
Quest’anno scolastico,
l’associazione Mani Colorate e il suo progetto Informi@moci, abbiamo incontrato
moltissimi bambini e ragazzi. Siamo entrati in tutti gli ordini di scuola,
dalla Primaria alla scuola secondaria di II grado. Li abbiamo incontrati in
DAD, tutti a casa e collegati ognuno con un dispositivo, o in remoto,
attraverso la LIM, quando i ragazzi erano già ritornati a scuola, ma i
dirigenti non permettevano la presenza di personale esterno nella scuola. Poi
siamo anche riusciti ad essere in presenza, soprattutto in alcune scuole
primarie, dove il parlarsi faccia a faccia, anche se con la mascherina, ci ha
dato di nuovo l’entusiasmo di sentirci più vicini. Abbiamo proposto video,
storie, piccole attività che potessero far sentire tutti ascoltati, e belli e
importanti nelle rispettive diversità, perché tutti sentissero che, se volevano,
potevano parlare di sé senza timore di essere giudicati, anzi, ogni racconto
sarebbe stato prezioso per tutti. Abbiamo dovuto rinunciare a qualche piccolo
gioco per “scaldare” l’ambiente, al sedersi in cerchio, dove tutti sono in
prima fila e nessuno è escluso dai racconti che si vogliono portare. Tutti gli
insegnanti ci hanno aiutato, per rendere gli incontri con i ragazzi quasi
normali anche dove “normali” non potevano essere.
In alcune classi siamo stati
chiamati espressamente dagli insegnanti perché qualcosa non funzionava. In
queste classi siamo riusciti lavorare in presenza. In altre siamo stati
chiamati perché “di queste cose è sempre utile parlarne”. E i bambini e i
ragazzi, più a loro agio di noi, più capaci di tutti ad adattarsi anche in condizioni
estreme, ci hanno fatto spesso commuovere e riflettere, raccontandoci le loro
storie. Eccone alcune
Dario
Dario (nome di fantasia) è
entrato nella classe dopo essersi trasferito con la famiglia, non conoscendo
nessuno. Il gruppo classe è ben amalgamato perché, trattandosi di una scuola di
un paese della provincia di Asti, tutti si conoscono da tempo, e tra i compagni
c’è chi ha fatto tutte le scuole insieme, fin dalla scuola dell’infanzia.
Entrare nel gruppo non è facile, e Dario cerca di entrarci con gli strumenti
che ha e che conosce. Si “attacca” ad una ragazzina della classe, e le sta
addosso, perché gli piace. Va avanti un po’ di giorni e poi il gioco incomincia
a dar fastidio alla ragazzina, che non lo vuole più. Lui insiste, ma al suo
rifiuto, incomincia a tartassarla al cellulare, insultandola, e scrivendole
frasi pesanti, che la ragazzina fa leggere alla mamma che a sua volta segnala
il fatto ai professori. Dario viene messo alle strette, sulle prime dice che
non le ha scritte lui quelle frasi, e accusa un compagno. Poi cede e ammette. Quando arriviamo noi la classe ha fatto muro
contro di lui. Non gli perdonano di aver accusato un compagno al posto suo, mentre
lui, nel suo desiderio non accolto di essere accettato dal gruppo, si è ancora
più indurito e arroccato nelle sue posizioni, poco convinto della gravità di
ciò che ha fatto. Con la classe si parla a lungo, e si cerca di mettere in luce
i sentimenti di ognuno rispetto ai fatti. Il compagno accusato, che è ancora
più deluso per il fatto che si conoscevano già, ed erano amici, una volta. La
ragazzina, che lo ha già perdonato, perché ha capito, ma comunque Dario non le
sta simpatico lo stesso. I compagni, che si sentono attaccati come gruppo. E
infine Dario, e il suo bisogno di essere accolto, anche se non lo dice mai, e
che fa sempre più il duro. Li aiutiamo a parlare, guardandosi negli occhi e
dicendosi che cosa provano, e ad ascoltarsi, chiedendo loro di provare a capire
i sentimenti di tutti. Anche se sappiamo
che il nostro intervento non può essere risolutivo, è stata un’occasione per
parlarsi e i ragazzi non l’hanno sprecata.
I professori in DAD
Tanto tempo davanti al PC. I
prof che parlano. Dopo un po’ arriva la noia. Per fortuna si può tenere il
video spento, con la scusa che la connessione è lenta. Intanto che si ascolta,
si può fare anche altro. Come ad esempio fare la foto ai prof e metterla sulla
chat di classe. Così, per ridere, e poi, visto che ridono tutti, non ci va
tanto a scriverci sotto una frase ridicola, per ridere ancora di più. Qualche
mamma (che non rinuncia a vigilare su ciò che scrivono o leggono i loro figli
in chat) se ne accorge e lo comunica a scuola. I ragazzi vengono sgridati e puniti,
hanno 12 anni, non avevano gli strumenti per capire che quello che hanno fatto
era un reato. I loro docenti ci lasciano da soli in classe, dicendoci “così si
sentono liberi di parlare”, ma non ci spiegano cosa è successo. Il fatto viene
fuori quasi per caso, quando chiedo se hanno una chat di classe e mi rispondono
“non più”. Non più perché? E raccontano. Ma raccontano anche quanto stanno
male, e quanto nella classe si sia “rotto qualcosa”. Stanno male perché hanno
capito che è una cosa grave mettere una foto non autorizzata sui social, non lo
sapevano, lo hanno fatto con l’idea di fare uno scherzo. Ma si è rotto qualcosa
perché non tutti erano d’accordo, qualcuno sapeva che non si poteva fare, ma
non hanno detto niente. Questi ragazzi sono quelli che si sentono più
colpevoli. “io sapevo che non era una cosa da fare, ma non ho avuto il
coraggio”, ha detto una di loro. Si, non ho avuto il coraggio: il coraggio di
essere diversa, di non ridere anch’io, di dire che stavano sbagliando. A 12
anni essere nel gruppo è la cosa più importante. Uscirne fuori, dissentire dal
pensiero comune richiede uno sforzo enorme. Ma poi si sta male perché ci si
sente responsabili. Purtroppo non
aiuterà questa ragazzina sapere che molti adulti non ce l’hanno questo
coraggio, in diverse occasioni.
Vittime di bullismo
Tantissimi sono state le
storie in cui ci si è sentiti “bullizzati”. Si usa questo termine in modo
generico, ad indicare tutte le volte che ci si è sentiti presi in giro,
esclusi, insultati, anche se non si tratta di vero e proprio bullismo, ma le
definizioni non sono importanti. La sofferenza invece è sempre la stessa. Molti
bambini già nella scuola primaria raccontano di aver subito prepotenze già
quando erano più piccoli, e alcuni di loro rivivono quel dolore nel
raccontarlo, anche se sono passati degli anni. “Ci vuole poco tempo per
prenderci in giro, ma tanto tempo per venirne fuori”, dice un bambino di 10
anni. Ma da queste sofferenze bisogna venirne fuori: in che modo? Parlandone
con i veri amici, quelli che ci sono più vicini, a volte con chi ha vissuto le
stesse esperienze, perché è più in grado di capire. La paura a parlare è tanta
anche perché si ha paura di essere presi in giro da chi abbiamo scelto come
amico per parlarne. Poi certo, anche con gli adulti, anche se qualche volta
“hanno tanto da fare e molte altre preoccupazioni”. A scuola è importante
parlarne con gli insegnanti, che possono intervenire, ma prendere provvedimento
spesso non risolve la situazione. È importante reagire, parlarci con il bullo,
farsi coraggio: “noi siamo bambini e dobbiamo crescere bene, e anche tu (il
bullo) devi crescere bene”. Capire che abbiamo altre potenzialità, come dice
qualcuno: “venivo preso in giro perché sono scarso a giocare a pallone, ma io
sono più bravo di loro a scuola”, e vincere la timidezza e farsi più amici.
L’esperienza del bullismo ci cambia, qualche volte ci rende più forti, e altre
più deboli.
La maggior parte racconta
storie di prepotenze agite con le parole, perché le parole “fanno tanto male e
lasciano cicatrici nella mente e nel cuore”. Il cuore diventa come un foglio di
“carta stropicciato, che anche se lo allarghiamo di nuovo, le pieghe si
distendono ma non spariscono”.
Ma sarà comunque un foglio
dove potremo scrivere e colorare un nuovo, meraviglioso racconto.