martedì 25 maggio 2021

COME UN FOGLIO DI CARTA STROPICCIATO

 



COME UN FOGLIO DI CARTA STROPICCIATO 

dott.ssa Elisa Lupano - Pedagogista, Counsellor, già giudice onorario Tribunale dei Minori di Torino

Storia di un laboratorio sul bullismo e il cyberbullismo 

in condizioni “straordinarie”

Quest’anno scolastico, l’associazione Mani Colorate e il suo progetto Informi@moci, abbiamo incontrato moltissimi bambini e ragazzi. Siamo entrati in tutti gli ordini di scuola, dalla Primaria alla scuola secondaria di II grado. Li abbiamo incontrati in DAD, tutti a casa e collegati ognuno con un dispositivo, o in remoto, attraverso la LIM, quando i ragazzi erano già ritornati a scuola, ma i dirigenti non permettevano la presenza di personale esterno nella scuola. Poi siamo anche riusciti ad essere in presenza, soprattutto in alcune scuole primarie, dove il parlarsi faccia a faccia, anche se con la mascherina, ci ha dato di nuovo l’entusiasmo di sentirci più vicini. Abbiamo proposto video, storie, piccole attività che potessero far sentire tutti ascoltati, e belli e importanti nelle rispettive diversità, perché tutti sentissero che, se volevano, potevano parlare di sé senza timore di essere giudicati, anzi, ogni racconto sarebbe stato prezioso per tutti. Abbiamo dovuto rinunciare a qualche piccolo gioco per “scaldare” l’ambiente, al sedersi in cerchio, dove tutti sono in prima fila e nessuno è escluso dai racconti che si vogliono portare. Tutti gli insegnanti ci hanno aiutato, per rendere gli incontri con i ragazzi quasi normali anche dove “normali” non potevano essere.

In alcune classi siamo stati chiamati espressamente dagli insegnanti perché qualcosa non funzionava. In queste classi siamo riusciti lavorare in presenza. In altre siamo stati chiamati perché “di queste cose è sempre utile parlarne”. E i bambini e i ragazzi, più a loro agio di noi, più capaci di tutti ad adattarsi anche in condizioni estreme, ci hanno fatto spesso commuovere e riflettere, raccontandoci le loro storie. Eccone alcune

Dario

Dario (nome di fantasia) è entrato nella classe dopo essersi trasferito con la famiglia, non conoscendo nessuno. Il gruppo classe è ben amalgamato perché, trattandosi di una scuola di un paese della provincia di Asti, tutti si conoscono da tempo, e tra i compagni c’è chi ha fatto tutte le scuole insieme, fin dalla scuola dell’infanzia. Entrare nel gruppo non è facile, e Dario cerca di entrarci con gli strumenti che ha e che conosce. Si “attacca” ad una ragazzina della classe, e le sta addosso, perché gli piace. Va avanti un po’ di giorni e poi il gioco incomincia a dar fastidio alla ragazzina, che non lo vuole più. Lui insiste, ma al suo rifiuto, incomincia a tartassarla al cellulare, insultandola, e scrivendole frasi pesanti, che la ragazzina fa leggere alla mamma che a sua volta segnala il fatto ai professori. Dario viene messo alle strette, sulle prime dice che non le ha scritte lui quelle frasi, e accusa un compagno. Poi cede e ammette.  Quando arriviamo noi la classe ha fatto muro contro di lui. Non gli perdonano di aver accusato un compagno al posto suo, mentre lui, nel suo desiderio non accolto di essere accettato dal gruppo, si è ancora più indurito e arroccato nelle sue posizioni, poco convinto della gravità di ciò che ha fatto. Con la classe si parla a lungo, e si cerca di mettere in luce i sentimenti di ognuno rispetto ai fatti. Il compagno accusato, che è ancora più deluso per il fatto che si conoscevano già, ed erano amici, una volta. La ragazzina, che lo ha già perdonato, perché ha capito, ma comunque Dario non le sta simpatico lo stesso. I compagni, che si sentono attaccati come gruppo. E infine Dario, e il suo bisogno di essere accolto, anche se non lo dice mai, e che fa sempre più il duro. Li aiutiamo a parlare, guardandosi negli occhi e dicendosi che cosa provano, e ad ascoltarsi, chiedendo loro di provare a capire i sentimenti di tutti.  Anche se sappiamo che il nostro intervento non può essere risolutivo, è stata un’occasione per parlarsi e i ragazzi non l’hanno sprecata. 

I professori in DAD





Tanto tempo davanti al PC. I prof che parlano. Dopo un po’ arriva la noia. Per fortuna si può tenere il video spento, con la scusa che la connessione è lenta. Intanto che si ascolta, si può fare anche altro. Come ad esempio fare la foto ai prof e metterla sulla chat di classe. Così, per ridere, e poi, visto che ridono tutti, non ci va tanto a scriverci sotto una frase ridicola, per ridere ancora di più. Qualche mamma (che non rinuncia a vigilare su ciò che scrivono o leggono i loro figli in chat) se ne accorge e lo comunica a scuola. I ragazzi vengono sgridati e puniti, hanno 12 anni, non avevano gli strumenti per capire che quello che hanno fatto era un reato. I loro docenti ci lasciano da soli in classe, dicendoci “così si sentono liberi di parlare”, ma non ci spiegano cosa è successo. Il fatto viene fuori quasi per caso, quando chiedo se hanno una chat di classe e mi rispondono “non più”. Non più perché? E raccontano. Ma raccontano anche quanto stanno male, e quanto nella classe si sia “rotto qualcosa”. Stanno male perché hanno capito che è una cosa grave mettere una foto non autorizzata sui social, non lo sapevano, lo hanno fatto con l’idea di fare uno scherzo. Ma si è rotto qualcosa perché non tutti erano d’accordo, qualcuno sapeva che non si poteva fare, ma non hanno detto niente. Questi ragazzi sono quelli che si sentono più colpevoli. “io sapevo che non era una cosa da fare, ma non ho avuto il coraggio”, ha detto una di loro. Si, non ho avuto il coraggio: il coraggio di essere diversa, di non ridere anch’io, di dire che stavano sbagliando. A 12 anni essere nel gruppo è la cosa più importante. Uscirne fuori, dissentire dal pensiero comune richiede uno sforzo enorme. Ma poi si sta male perché ci si sente responsabili.  Purtroppo non aiuterà questa ragazzina sapere che molti adulti non ce l’hanno questo coraggio, in diverse occasioni.

Vittime di bullismo

Tantissimi sono state le storie in cui ci si è sentiti “bullizzati”. Si usa questo termine in modo generico, ad indicare tutte le volte che ci si è sentiti presi in giro, esclusi, insultati, anche se non si tratta di vero e proprio bullismo, ma le definizioni non sono importanti. La sofferenza invece è sempre la stessa. Molti bambini già nella scuola primaria raccontano di aver subito prepotenze già quando erano più piccoli, e alcuni di loro rivivono quel dolore nel raccontarlo, anche se sono passati degli anni. “Ci vuole poco tempo per prenderci in giro, ma tanto tempo per venirne fuori”, dice un bambino di 10 anni. Ma da queste sofferenze bisogna venirne fuori: in che modo? Parlandone con i veri amici, quelli che ci sono più vicini, a volte con chi ha vissuto le stesse esperienze, perché è più in grado di capire. La paura a parlare è tanta anche perché si ha paura di essere presi in giro da chi abbiamo scelto come amico per parlarne. Poi certo, anche con gli adulti, anche se qualche volta “hanno tanto da fare e molte altre preoccupazioni”. A scuola è importante parlarne con gli insegnanti, che possono intervenire, ma prendere provvedimento spesso non risolve la situazione. È importante reagire, parlarci con il bullo, farsi coraggio: “noi siamo bambini e dobbiamo crescere bene, e anche tu (il bullo) devi crescere bene”. Capire che abbiamo altre potenzialità, come dice qualcuno: “venivo preso in giro perché sono scarso a giocare a pallone, ma io sono più bravo di loro a scuola”, e vincere la timidezza e farsi più amici. L’esperienza del bullismo ci cambia, qualche volte ci rende più forti, e altre più deboli.  

La maggior parte racconta storie di prepotenze agite con le parole, perché le parole “fanno tanto male e lasciano cicatrici nella mente e nel cuore”. Il cuore diventa come un foglio di “carta stropicciato, che anche se lo allarghiamo di nuovo, le pieghe si distendono ma non spariscono”.

Ma sarà comunque un foglio dove potremo scrivere e colorare un nuovo, meraviglioso racconto.


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